Federico Battistutta

U.G. Krishnamurti: per una critica della ragione religiosa

 

  1. LA CIVILTÀ INDIANA E NOI

Ogni tradizione religiosa hai i suoi carismi, vale a dire un insieme di tratti o un complesso di qualità, che la contraddistinguono rispetto alle altre discipline, tale da renderla riconoscibile all’interno del mare magnum del pensiero e delle pratiche religiose.

Ora, volgendo l’attenzione a quel variegato mondo che siamo soliti chiamare induismo, ma che gli abitanti del subcontinente indiano chiamano sanātana dharma (che vuol dire all’incirca “legge eterna”), quali sono i tratti che lo distinguerebbero? A uno sguardo distratto pare facile individuarli, ma se ci si accosta senza vizi di partenza il lavoro risulta più arduo. Ad esempio, un autore come Raimon Panikkar, che si situa a pieno titolo, per vicende biografiche e intellettuali, a cavallo tra Oriente e Occidente, ha sostenuto che l’induismo in quanto tale non esiste, poiché ci sono tanti cammini e tanti linguaggi che convivono al suo interno; e di conseguenza non è rinvenibile un’essenza indù, poiché si tratta piuttosto di una forma di esistenza.[1] Ciò che chiamiamo induismo è più un modo di vivere e di pensare che una religione organizzata. Può essere considerata come un insieme di correnti a sfondo devozionale, metafisico o speculativo, tra loro eterogenee, pur avendo un comune nucleo di riferimento. Questi indirizzi sono differenti tra loro, a seconda del modo in cui interpretano la tradizione (custodita dalle scritture vediche) e a seconda di quale aspetto diviene oggetto di focalizzazione. E’ innanzitutto un modo di essere e di vivere, che include i vari aspetti della vita quotidiana, dal nutrimento all’abbigliamento, dall’amare al morire. Pensiamo a una costellazione di usanze quotidiane tramandate da millenni da una civiltà che intende restare fedele al proprio passato, nell’osservanza di una serie di principi che collocano tutti gli esseri, compresi gli uomini, all’interno di un contesto universale.

Il termine sanscrito dharma viene solitamente tradotto con la parola “religione”, ma propriamente ha un significato differente: deriva dalla radice dhar- che significa “sostenere, tenere fermamente", da cui proviene il significato di “legge universale”, “il modo in cui le cose sono”. Mentre la parola religione proviene dal latino religio, che, secondo un’etimologia (a cominciare da Cicerone) viene fatta derivare dal verbo relegere, ossia "rileggere", intendendo una rilettura degli eventi naturali come opera di entità soprannaturali. Un’altra interpretazione, risalente a Lattanzio e a Tertulliano, ripresa da sant'Agostino, sostiene che la parola deriva da un altro verbo, religare, cioè “legare, vincolare”, nel significato di legare l'uomo alla divinità. Quale che sia, entrambi i significati sono ben distanti dal concetto di dharma, largamente usato per le religioni orientali, non solo dell’India.

Se si indugia su tali aspetti è per istituire un retto rapporto tra le parole e le cose, riconoscendo al contempo l’esistenza di una storia segreta delle parole - non meno interessante della storia segreta e dell’inconscio degli esseri umani - che merita scoprire, conoscere e apprezzare.

Uno degli errori più frequenti che si compie quando ci si accosta a una cultura lontana e diversa dalla propria consiste nell’interpretarla utilizzando quell’insieme di sistemi di riferimento che si è soliti adoperare per analizzare i fenomeni della propria cultura. Un simile punto di partenza viziato finisce per fornire alcuni elementi che possono far deviare da una comprensione equilibrata e che in seguito possono amplificare esponenzialmente equivoci e fraintendimenti. Giova ricordare quello che diceva in proposito Louis Dumont, il quale si era specializzato proprio nello studio della civiltà indiana. Egli affermava che per comprendere una cultura diversa “conviene in primo luogo stabilire un rapporto intellettuale corretto fra la nostra civiltà, che ci fornisce i nostri modi di pensiero, e la civiltà che ci sforziamo di comprendere.” Più oltre tratteggiava la posizione e addirittura lo statuto mentale dell'antropologo, “condannato alla comparazione”, cioè a vedere sempre degli insiemi in una maniera comparativa.[2]

 

  1. COLUI CHE DISSIPA LE TENEBRE

Riprendendo il quesito iniziale, possiamo dire che uno fra i tanti elementi distintivi dell’induismo è il ruolo particolare assegnato al maestro spirituale, il guru. Secondo un’etimologia tradizionale il termine guru vorrebbe dire “dissipatore delle tenebre”; la sillaba gu significa ‘tenebre’, la sillaba ru significa ‘colui che dissipa’.Nelle Leggi di Manu (testo databile fra il II secolo a.C. e il II secolo d.C.) si legge che per il discepolo il maestro “va considerato come sua madre e suo padre”, aggiungendo poco oltre: “Egli deve considerare il fatto che sua madre e suo padre lo hanno generato per desiderio reciproco e il fatto di essere nato nel grembo semplicemente come una generazione. Invece la nascita che un maestro giunto all’altra sponda del Veda produce per lui mediante il verso dedicato al dio-sole, secondo le regole, è reale, libera dalla vecchiaia e dalla morte.”[3]

Il termine guru vuol indicare un precettore spirituale che, secondo alcuni, dovrebbe discendere da una catena iniziatica ininterrotta risalente sino ai veggenti dei tempi antichissimi. Si riferisce a un ruolo sociale molto importante in ambito indù, comune a tutti gli indirizzi filosofici e devozionali, ed è una figura a cui spetta il massimo rispetto, al limite della venerazione. Il rapporto che si instaura tra guru e discepolo è estremamente intimo e profondo, molto più di quanto ci si aspetterebbe da un comune rapporto tra maestro e allievo. Il guru diviene responsabile della crescita spirituale dell'aspirante, istruendolo e fornendo gli insegnamenti a lui più adatti, e soprattutto indicandogli tempi e modalità di esecuzione delle pratiche religiose. In certi casi il guru può essere considerato la divinità suprema o un avatar (una discesa, una manifestazione) di questa. Un’altra credenza comune è che il guru possieda poteri speciali (siddhi), a volte esibiti pubblicamente, a volte in forma privata, lasciando ai discepoli celebrarne il valore.

Oggi la parola guru è diventata di patrimonio comune, essendo entrata nel linguaggio giornalistico e televisivo. Ma l’impatto con la modernità e l’Occidente ha fatto sì che emergessero anche aspetti problematici o sospetti legati alla figura del maestro spirituale. Trasporre sic et simpliciter una figura di una simile rilevanza, dalla millenaria tradizione culturale e religiosa indiana alla moderna e contraddittoria società occidentale, ha finito in molti casi per sollevare più problemi di quelli che avrebbe dovuto affrontare e risolvere. In certi casi si è parlato di manipolazione, di sfruttamento, di riduzione in stato di soggezione. Ci sono state anche situazioni che hanno avuto risvolti giudiziari a livello internazionale. Delle avventure e disavventure di alcuni guru di fama mondiale si sono occupati, più o meno a proposito, i media. Non è il caso qui di soffermarsi.

 

  1. SALVARSI DAI SALVATORI

Sempre riguardo a modernità e modernizzazione. Molti osservatori internazionali stanno da tempo puntando l’obiettivo sul futuro dell’India. Attualmente è la dodicesima fra le potenze economiche del mondo in termini nominali, la quarta in termini di potere d'acquisto. Diverse riforme economiche hanno trasformato il paese nella seconda economia a più rapida crescita, facendo guardare al 2025 come l’anno in cui l’India diventerà la terza economia.[4] Questa trasformazione in corso non può non avere dei correlati in altri campi della società indiana. Lo stesso ambito religioso ne risulta toccato e coinvolto.

Alcune figure contemporanee di guru possono essere comprese proprio a partire dal confronto, a volte consapevole ed esplicito, a volte meno, con questo processo di modernizzazione che investe tanti aspetti della società. Basti pensare alle sorti di diversi personaggi: Maharishi Mahesh Yogi (1911-2008), fondatore della Meditazione Trascendentale e noto per essere stato il guru di molte star dello spettacolo; Bhaktivedanta Prabhupada (1896-1977), ispiratore della Società internazionale per la coscienza di Krishna, un’organizzazione missionaria che ha fatto molti adepti in Occidente; Osho Rajneesh (1931-1990), che ha impartito, prima in India poi negli Stati Uniti, un insegnamento fortemente sincretico (fondendo pratiche contemplative orientali e tecniche psicoterapeutiche occidentali) e a tratti trasgressivo; Sathya Sai Baba (1926), forse il più famoso fra i guru viventi, con milioni di seguaci in tutto il mondo. Per limitarci solo alle figure più note.

Ma la stessa cultura che ha espresso con intensità quei tratti che la caratterizzano, ha saputo anche nel tempo elaborare al proprio interno delle difese immunitarie che la mettono al riparo dai pericoli provenienti proprio dalla proliferazione incontrollata di quegli stessi aspetti peculiari. Contemporaneamente alla diffusione degli insegnamenti di questi maestri che hanno saputo coniugare abilmente tradizione e modernità, sono emerse proprio dal suolo indiano alcune figure che si sono contraddistinte per l’invito a una ricerca personale, libera da ogni forma di condizionamento, a cominciare dalla dipendenza da un guru. Possiamo fare i nomi di Jiddu Krishnamurti (1895-1986), forse il più celebre fra questi anti-guru, o di R.P. Kaushik (1926-1981). Ma colui che più di tutti si è posto in aperta polemica nei confronti dei guru contemporanei, denunciando inganni e artifici dei sistemi religiosi, è stato Uppaluri Gopala Krishnamurti (1918- 2007), chiamato laconicamente U.G.[5]

 

  1. “LE BIOGRAFIE SONO MENZOGNE”

Proviamo a percorrere brevemente la vita di questa singolare figura. A chi gli si rivolgeva rivelando l’intenzione di voler scrivere una biografia su di lui, U.G. Krishnamurti sorrideva, dicendo che non era possibile raccontare la vita di chi è intimamente convinto di non avere affatto una storia e che comunque le biografie erano tutte menzognere. Ora, se la biografia è la scrittura di una vita, ed essa altro non è che il farsi e il disfarsi di accadimenti, di incidenti, di incontri grandi e piccoli, di elaborazioni e rielaborazioni del proprio vissuto, si cercherà allora di riportare il racconto della vita di U.G. Krishnamurti a questo elementare principio.[6]

Nato nello stato dell’Andhra Pradesh, da piccolo U.G. Krishnamurti venne educato sia secondo i principi tradizionali indù, sia secondo gli insegnamenti della Società Teosofica (che aveva la sede a Adyar, il quartiere residenziale di Madras, oggi Chennai). Importanti per le sue scelte future saranno anche gli incontri con tre protagonisti della spiritualità dell’India contemporanea: Shivananda Saraswati (1887-1963), Ramana Maharshi (1879-1950) e Jiddu Krishnamurti. Il primo è il celebre yogin di Rishikesh, il cui insegnamento contribuì non poco a far conoscere la pratica dello yoga in Occidente, combinata con un atteggiamento devozionale. Il secondo, Ramana Maharshi, è il saggio della montagna sacra Arunachala, che venne definito da Carl Gustav Jung come il “santo indiano” e fu descritto nelle sue opere anche dallo scrittore inglese W. Somerset Maugham. L’ultima di questi tre importanti figure, oltre a condividere l’omonimia con UG, presenta non pochi tratti in comune; infatti Jiddu Krishnamurti, dopo aver rifiutato l’investitura dai teosofi che volevano vedere in lui il veicolo terreno in cui si sarebbe incarnato Maitreya, il futuro "Istruttore del Mondo", dedicò l’intera esistenza a promuovere con passione una ricerca libera da ogni forma, da ogni dipendenza e da ogni organizzazione.

Divenuto adulto U.G., inizierà a lavorare all’interno della Società Teosofica, assumendo la carica di segretario generale congiunto della sezione indiana. E’ bene notare che mentre in Occidente la Società Teosofica si è trovata relegata nel mondo dell’esoterismo e dell’occultismo, in India ottenne ben altri apprezzamenti, acquisendo lo status di corrente di pensiero filosofico[7]. Risale a questo periodo l’attività di conferenziere per conto della Società Teosofica in giro per il mondo. Troviamo U.G. in Inghilterra, in Belgio, in Germania, in Norvegia e negli Stati Uniti. (Del resto, anche in seguito, quando ne avrà l’opportunità U.G. amerà sempre viaggiare). Il mestiere di conferenziere a tratti divenne frenetico, veniva invitato a parlare pressoché su tutto: il pensiero religioso dell’India, l’economia internazionale, la politica, l’educazione e via dicendo. A volte si trovava dinanzi il pubblico selezionato dei Lyons e dei Rotary Club, altre volte invece aveva di fronte gruppetti di signore anziane indaffarate a lavorare a maglia nel corso degli incontri. Finché a un certo punto cominciò a interrogarsi sul senso di tutto ciò. Decise di interrompere il suo giro di discorsi e di rompere con ogni forma di “teosofismo” (per usare un’espressione di René Guénon) [8]. In vita sua non avrebbe più tenuto nessuna conferenza pubblica (con un’eccezione, verificatasi diversi anni dopo in India, nel 1972 a Bangalore presso l’Indian Institute of World Culture, invitato a parlare della sua esperienza personale).

Segue il periodo in cui U.G. va alla deriva tra Londra, Parigi e Ginevra, conducendo un’esistenza simile a quella di tanti homeless. Questa fase decisamente critica della sua vita costituisce il preludio a quel determinante momento trasformativo, che ebbe luogo in Svizzera nel 1967, da lui stesso definito come l’esperienza della “calamità”. Tale termine è stato adoperato con l’intenzione di indicare che un’esperienza del genere non possedeva certo i tratti dello stato di beatitudine o di meraviglia rinvenibile nella letteratura mistica (il sat-cit-ananda dell’induismo), ma era più simile a una condizione sgradevole, a una vera e propria calamità fisica e psichica. Non uno stato di grazia, ma di disgrazia!

Una volta superata questa fase, cominciò a diffondersi la voce intorno ad alcune strane vicende occorse a questo uomo, piccolo di statura e dal volto accattivante, con idee spiazzanti pressoché su tutto, ma in particolare sulla religione. Qualcuno cominciò ad andarlo a trovare e a frequentare la sua abitazione, in Svizzera. Nacquero in questo modo gli incontri con chi desiderava conoscerlo e parlare con lui, che durarono praticamente sino al termine della sua vita; incontri mai pubblicizzati e tutti di natura fortemente informale. Dal canto suo U.G. non si sottrasse a questi incontri, ma neppure li incoraggiava. Spesso, a chi ritornava da lui dopo un primo incontro osservava che il solo fatto di ripresentarsi costituiva una delusione, perché significava che l’interlocutore non aveva afferrato la sostanza di quanto avevano discusso in precedenza: in breve, l’invito a camminare sulle proprie gambe, senza dipendere da nessuno. “Voi dovete toccare la vita in un punto dove non è mai stata toccata da nessuno prima d’ora. E nessuno può insegnarvi come si fa”, è un’affermazione che rispecchia bene il suo pensiero. O quest’altra: “Non vi sto dando delle risposte. Se fossi così stupido da fornirvi risposte, voi dovreste capire che proprio queste stesse risposte distruggono la possibilità che le domande scompaiano”. O ancora: “Non mi preoccupo tanto di demolire quello che altri prima di me hanno detto. Sarebbe fin troppo facile. Mi preoccupo invece di togliere di mezzo quello che io stesso dico. Per essere più precisi, sto cercando di impedire che possiate interpretare quello che sto dicendo a modo vostro. Per questo motivo appare contraddittorio quello che dico”.

Alcune di queste conversazioni vennero registrate e in seguito trascritte e pubblicate in volume, anche se U.G. non dimostrò interesse neppure verso queste pubblicazioni, tanto che troviamo come esergo a ogni suo volume la seguente frase: “Il mio insegnamento, se vi piace chiamarlo così, non ha copyright. Siete liberi di riprodurlo, diffonderlo, interpretarlo, fraintenderlo, distorcerlo, alterarlo, potete farne quel che vi pare, potete anche pretendere di esserne voi gli autori, senza bisogno di chiedere né il mio consenso, né il permesso di chiunque altro.” Al momento è possibile leggere libri di U.G. Krishnamurti in inglese, francese, tedesco, olandese, italiano, spagnolo, polacco, serbo, coreano, hindi, tamil, telugu e kannada (queste ultime sono lingue parlate in alcune regioni dell’India)[9].

Ma la parola scritta può restituire solo una parte dell’esperienza reale di una conversazione. Il tempo che scorre, i volti, le emozioni, tutto ciò e altro ancora non può comparire in un libro; anche se sotto certi aspetti un libro è anche qualcosa di più rispetto a un colloquio; essendo un’elaborazione successiva, possiede maggiore precisione, può costituire una chiarificazione e un approfondimento rispetto al materiale di partenza. A questo proposito introduciamo la seguente riflessione: poiché ogni affermazione di U.G. Krishnamurti è una risposta ad personam, proviene da una precisa domanda posta da una precisa persona, non ci si deve stupire di cogliere delle possibili contraddizioni nei suoi interventi; queste sono ascrivibili alla asistematicità del suo pensiero, in quanto non c’è un tessuto teorico organico da cui si originano le risposte: in più occasioni U.G. afferma di non avere alcun messaggio da trasmettere, o che la vita non ha alcun significato o direzione. Se un pregio degli incontri con U.G. era l’informalità, che permetteva a chiunque di potersi inserire e partecipare, questo elemento, in sé positivo, innesca altre implicazioni. Un contesto dialogico richiede che vi sia un certo grado di frequentazione o di conoscenza fra i soggetti che interagiscono. Non basta porre una domanda per entrare in relazione con qualcuno, occorre comprendere quale mondo si cela dietro le parole adoperate, poiché se il linguaggio è uno strumento indispensabile per comunicare, oltre a svelare può esprimere l’esatto contrario, può velare, divenendo un sottile strumento di mistificazione per nascondere noi a noi stessi e agli altri. Perché un dialogo possa instaurarsi in forma autentica è necessario che si formi e si consolidi una relazione da persona viva a persona viva, senza che ciò finisca per compromettere la libertà e l’indipendenza di chi partecipa. Ora, non sappiamo in che maniera tali condizioni si siano verificate nel corso degli incontri da cui sono tratti i libri di U.G.

Questi incontri sono proseguiti in diversi luoghi, dall’India alla Svizzera, a Londra o a Amsterdam, praticamente - come si è detto - fino al momento della morte, avvenuta nel 2007, a Vallecrosia, in Italia. In quel momento si trovava in compagnia di un ristretto gruppo di amici. Rispettando la sua volontà, dopo il decesso il corpo è stato cremato, senza seguire alcun rito religioso. Aveva ottantotto anni. “E’ il momento di partire”, pare abbia detto. D’altro canto, quando nel corso degli incontri, gli ponevano quesiti sul problema della morte rispondeva sempre che la vita e la morte non possono essere in alcun modo separate.

 

  1. DECOSTRUZIONE DELLA SPIRITUALITÀ

Soprattutto in India c’è chi ha posto in relazione il pensiero di U.G. Krishnamurti con la corrente tradizionale indù dell’advaita vedānta e in effetti, si possono individuare punti di contatto. Del resto fra i pochi autori risparmiati dalla sua vis polemica troviamo Gaudapāda, il primo grande espositore di questa dottrina, e Shankara, l’esponente di maggior rilievo[10]. Espressioni come quelle che seguono potrebbero infatti venir lette in chiave vedantina: “Non c’è un centro, non c’è un Sé, né un’anima. Non c’è proprio nulla”. Oppure: “Non c’è niente da raggiungere, niente da guadagnare, niente da ottenere e nessuna meta da perseguire”. Ma forse merita evidenziare maggiormente la novità racchiusa nella sua testimonianza, al fine di collocarla integralmente in seno al religioso contemporaneo e ai suoi fermenti.[11]

C’è in U.G. Krishnamurti un rapporto conflittuale con la cultura. La sua critica non è rivolta verso una particolare espressione culturale, come quella indiana in cui è nato o quella occidentale che si sta imponendo con prepotenza come pensiero unico. Entrambe sono viste come varianti provenienti da una comune matrice, che ha come tratto caratteristico la perpetuazione dell’ordine sociale attraverso la formazione e l’inserimento dei singoli individui in un sistema di valori condiviso. E’ questo che viene messo in discussione da U.G., è questa presa della civiltà umana che ha costruito la separazione dell’uomo dal mondo circostante, attraverso il pensiero e la cultura. La critica che U.G. rivolge alle varie tradizioni religiose è solo una declinazione di questa critica più generale: “In qualche punto lungo la linea dell’evoluzione l’uomo sperimentò l’autocoscienza per la prima volta, in contrasto con il modo in cui la coscienza funziona nelle altre specie. E’ stato là, in quella divisione della coscienza che è nato Dio e come lui la scienza nucleare che sta minacciando di estinzione tutto quello che la natura ha creato con infinita cura.” O ancora: “La bomba all’idrogeno ha la sua origine nell’osso della mandibola di un asino, l’uomo delle caverne lo usò per uccidere il suo simile. Qui il vostro uomo civilizzato sta facendo la stessa cosa del cavernicolo, ma voi lo fate per il ‘bene dell’umanità’. Quelli che credono ancora di essere nel giusto e che la loro bontà eterna consumerà il male degli altri sono i veri nemici dell’umanità.” In un’altra occasione dirà: “Se vogliamo usare un termine politico crudo, il pensiero è fascista: per nascita, contenuto, espressione e azione. Non c’è via di uscita, è un meccanismo che si autoalimenta.”

In opposizione a tutto ciò U.G. Krishnamurti parla di uno ‘stato naturale’. Si tratta di un concetto-limite e infatti egli vede in esso il pericolo di ingessare il discorso dentro una terminologia coniata ad hoc, finendo per riportare all’interno delle categorie del conosciuto qualcosa di costitutivamente irriducibile al pensiero cosciente e all’elaborazione del linguaggio: “Può questo stato naturale essere catturato, contenuto ed espresso attraverso delle parole? No, non è possibile. Non potrà mai divenire parte del pensiero cosciente. Perché allora io dovrei parlare di questo stato di non conoscenza? Non ha nessun utilizzo nella vita pratica di ogni giorno, non può mai divenire parte del nostro pensiero cosciente e delle nostre esperienze”.

Quando si dice ‘stato naturale’ non si sta parlando di una dimensione statica, bensì di qualcosa di intrinsecamente dinamico, un movimento perpetuo senza centro o direzione; né si deve intendere per ‘natura’ la ricerca romantica e nostalgica di una condizione di innocenza, contrapposta alla nevrotica vita contemporanea.

Possiamo rappresentarci il modo di definire l’identità della nostra persona come un tracciare, consapevolmente o meno, un segno di delimitazione, una linea di confine: tutto ciò che ricade all’interno del confine segnato sono io; quello che si trova all’esterno è non io. Rispondere alla domanda: “chi sono io?”, significa in fondo rispondere al quesito: “dove sta il confine?” Solitamente la linea di confine che tracciamo è indicata dalla nostra pelle, anche se spesso finiamo per identificarci non con la totalità della persona, ma solo con quegli aspetti di noi stessi - del nostro corpo, della nostra mente, della nostra esperienza - che siamo disposti ad accettare, trascurando, escludendo o addirittura negando i lati oscuri, le ombre che ci abitano. Tale linea di confine può essere ridefinita, lungo l’asse del tempo e dell’esperienza, annettendo o espellendo porzioni di territorio, attraverso procedimenti di avanzamento o arretramento. A volte la linea di confine può divenire un terreno di battaglia, un luogo di conflitto e sofferenza, fra noi e gli altri, fra noi e noi stessi[12].

Seguendo questa rappresentazione, lo ‘stato naturale’ può venire allora inteso come una condizione in cui lasciamo andare la presa e ci arrendiamo. Non si può programmare; non è neppure un atto deliberato attraverso il quale espandiamo i nostri confini. Sarebbe delirio di onnipotenza o una forma bizzarra di imperialismo identitario. E’ l’esatto contrario, si tratta di disarmo. E’ un gioco a perdere, di cui non siamo tenuti a conoscere gli esiti. Pertanto non c’è ragione per cui vantarsi, celebrando questo ‘stato naturale’ in forma retorica o poetica. C’è quello che c’è: il linguaggio asciutto di U.G. Krishnamurti, che in molti passaggi può irritare il lettore, sta ad indicare solo questo.

 

 

NOTE

[1] RAIMON PANIKKAR, L’esperienza della vita. La mistica, Milano, Jaca Book, 2005.

[2] LOUIS DUMONT, La civiltà indiana e noi, Milano, Adelphi, 1986.

[3] Le leggi di Manu, a cura di Wendy Doniger e con la collaborazione di Brian K. Smith, Milano, Adelphi, 1996.

[4] L’India ha un tasso di crescita medio stabile da anni al 6-7%, con un volume di affari da 22 miliardi di dollari l’anno nel settore del software, con 15.000 aziende nel settore informatico e delle telecomunicazioni, e 15 milioni di utenti internet che aumentano al ritmo del 50% l’anno. Ci sono 380 università scientifiche, 5 politecnici a livello internazionale e 500.000 laureati in discipline scientifiche ogni anno. I dati sull’industria informatica sono tratti dai rapporti del Ministero delle tecnologia informatica: http://www.mit.gov.in. Per i dati macroeconomici vedi i rapporti del Ministero delle finanze: http://www.indiabudget.nic.in.

[5] Stupisce che nel saggio di DAVID SMITH, Induismo e modernità, Milano, Bruno Mondadori, 2008, si dia spazio ai diversi guru contemporanei, ma non si accenni neppure di sfuggita alla presenza e all’originalità di questi anti-guru.

[6] Ci baseremo soprattutto sul testo scritto - più un racconto partecipato che una biografia obiettiva - dal regista e produttore indiano M. Bhatt, che fu a lui vicino per lungo tempo: MAHESH BHATT, U.G. Krishnamurti. A life, New Dehli, Penguin Books India, 1992.

[7] Ad esempio, la troviamo menzionata, accanto ad altre scuole, tra gli indirizzi di rinnovamento religioso nel saggio di P.T. RAJU, Il pensiero indiano contemporaneo. Correnti induiste, in Storia della filosofia orientale, a cura di Sarvepalli Radhakrishnan, II, Milano, Feltrinelli, 1962.

[8] RENÉ GUÉNON, Il teosofismo. Storia di una pseudo-religione, Torino, Arktos, 1987.

[9] In Italia buona parte dei libri sono stati stampati dalla casa editrice Aequilibrium, con sede Milano. Segnaliamo qui la pubblicazione più recente: si tratta di un’antologia di testi uscita in India, pochi mesi dopo la scomparsa: The Penguin U.G. Krishnamurti reader, a cura di Mukunda Rao, New Dehli, Penguin Books India, 2007.

[10] Per un primo approccio all’advaita vedānta, anche in relazione alle altre correnti indù: JOSÈ PEREIRA, Manuale di teologie induiste, Roma, Ubaldini, 1979.

[11] C’è, ad esempio, chi ha interpretato l’approccio di UG Krishnamurti in termini decostruzionisti. Cfr. NARAYANA MOORTY, Thought, the natural state and the body: deconstruction of spirituality in U.G. Krishnamurti, intervento presentato al 17° congresso internazionale sul vedānta, tenutosi nel settembre 2007, presso la Miami University, Oxford (Ohio, USA). Consultabile su: http://home.pacbell.net/moorty.

[12] Su questi temi, trattati a cavallo fra psicologia e spiritualità, cfr. KEN WILBER, Oltre i confini, Assisi, Cittadella, 1985.

 

Tratto da: “Religioni e Società”, n.64, maggio-agosto 2009